1 Capitolo 1/3

Porco mondo. Ultimamente ho iniziato e accannato un libro dopo l'altro. Tutti con questi protagonisti tormentati, "Hey stavo proprio impazzendo in quel periodo" "Ero così depressa dopo la morte del mio amore…". Non capisco tutta questa gioia nello stare male. Sei depresso, ok, non c'è bisogno di vantarsi. Chiama uno psicologo e risolvi i tuoi problemi, non fare il tipo edgy. Non funzionano nemmeno gli emarginati con me, se dici che ti identifichi in Mercoledì Adams è solo perché uno dei tuoi 678 follower non ti ha taggato in una storia negli ultimi dieci minuti. Insomma, anche io ero depresso dopo la morte di Domitilla, anche io mi sentivo fuori dalla società a quel tempo, ma sarei un vero psicopatico a dire "che bei periodi, dovrei scriverci un libro".

Domitilla. Lei si che sarebbe stata un buon personaggio per un romanzo. Era buffo vederla sempre furiosa nonostante le guance da scoiattolo, che sembrava una bambina. Lei si arrabbiava per davvero. Era come il Pelide Achille. Arrabbiarsi tanto da lasciar perdere la guerra al proprio esercito è tosta, serve una coscienza di ferro per non pensare a tutti quegli achei morti.

Scriverci un libro… Ripenso a quando ancora studiavo letteratura classica in Sapienza e leggevo molto di più. Scrivere a quel tempo era il mio sogno, non so se ora potrei provare di nuovo. Ma quando sono in autostrada, quelle lunghe notti passate al volante con il rimorchio del tir che mi scoda dietro, a volte mi metto a pensare. Un libro lo inizierei così… "Era il terzo anno di università, appena prima della laurea…" una cosa stile Iliade, che comincia alla fine, quando le cose si fanno interessanti.

Era il terzo anno di università, quel 2020. Nessuno sapeva che stava per arrivare il covid ed eravamo tutti felici. Quella beata giovinezza… ci nutrivamo di libri e non serviva altro.

Una Audi mi sorpassa a centosettanta all'ora mentre penso questo incipit. Si allontana veloce dalle macchie di asfalto illuminate dai miei fari, e forse anche io sto correndo troppo. Non sono Omero. Partiamo dall'inizio.

Era il primo anno di università, quel 2016. Ore 9, prima lezione nell'aula C di Lettere. Carlo Orsina parlava da dietro la cattedra e centoventi teste seguivano i suoi movimenti con attenzione. Eravamo tutti affamati di conoscenza, tutti con qualche libro extrascolastico nello zaino (io avevo con me i vagabondi del Dharma di Jack Kerouac, che ancora consideravo come una specie di vangelo). Ero ansioso di vivere gli anni universitari fino all'ultimo secondo, staccarmi dalla presenza pesante dei miei genitori e scoprire la vita nella Città Eterna.

Durante la pausa uscii con alcuni compagni, quelli che vedevo in prima fila qualche testa più avanti di me, sempre chini a scribacchiare sui quaderni ad anelli. Loro fumavano, io non ancora, ma ero ansioso di parlare con qualcuno come me, nuove matricole al primo giorno di studi.

-Forte questo Orsina, eh?- dissi irrompendo nella loro conversazione, aggiungendo qualche inutile dettaglio su un punto della spiegazione che mi aveva colpito particolarmente.

-Sai che è stato cacciato dall'università di Perugia per molestie ad una dottoranda?- mi rispose una ragazza più grande, palesemente ad un passo dal diventare fuori corso -Dicevi?- disse tornando con lo sguardo ad uno dei miei colleghi (alto, capelli ricci che lo facevano assomigliare ad un albero, vestiti che costavano quanto la mia intera borsa di studio).

-Si, sono qui perché non sono riuscito ad entrare ad ingegneria qualcosa- non ricordo a quale ingegneria pensava, ma era una di quegli indirizzi di nicchia che ovviamente ti costringo a chiedere "ah… e in cosa consiste" e la risposta è sempre data con un tono tanto banale da farti sentire ignorante a non aver mai sentito parlare di cose come l'ingegneria biogestionale dei processi alchemici. Andò proprio così la conversazione.

Quando tornammo in aula, mi sentivo fuori posto. Ora non vedevo teste simili alla mia ma solo persone fatte con lo stampino in una fabbrica che sfornava laureati e niente di più. Mi misi a leggere Kerouac, perdendo ogni speranza di fare amicizia con qualcuno.

Pochi tempo dopo conobbi gli altri. Questa parte la pensai trasportando dei rotoli di acciaio, subito dopo aver preso in carica il rimorchio nell'area industriale di Firenze Sud. Alla radio suonava un pezzo strumentale dei Daft Punk di cui non conoscevo il nome, ma che avevo già sentito alla radio in quel martedì del novembre 2017. Ero in mensa e Radio Subasio tentava di sovrastare le conversazioni di un centinaio di studenti (più quelli ancora in fila per entrare) e il ticchettio delle posate. Io stavo leggendo American Acropolis sull'Ipad (quello uscito nel 2009, funzionerebbe ancora se Domitilla non l'avesse utilizzato come sottopentola durante una serata alcolica cominciata male e finita peggio). Quei giorni leggevo in ogni momento libero sfruttando il catalogo online della biblioteca della Sapienza, e non mi accorsi subito degli altri tre che si aggiunsero al mio tavolo. Probabilmente mi chiesero anche se era libero, non ricordo se risposi qualcosa.

Ero arrivato al momento in cui Chevette e Rydell si incontrano, quando sul ponte cominciano a succedere cose strane, quando ai lati della mia attenzione cosciente cominciarono ad arrivare alcuni frammenti della conversazione dei tre. Qui devo fermarmi in un'area di sosta da qualche parte tra la Toscana e l'Emilia Romagna, per la notte. La mattina dopo, quando riparto all'alba, la radio suona Myss Keta e la cosa mi disturba troppo. Dimentico il racconto fino a quando ormai sono in vista di Bologna, senza ritrovare il filo di ciò che stavo pensando la sera prima. Forse dovrei aggiungere qualcosa sul nostro primo incontro. Se si può giudicare un libro dalla copertina, quei tre erano come una vecchia copia del Signore degli Anelli in edizione Rusconi: una semplice copertina flessibile che mostra una strada, un cammino che vuole essere percorso. E sotto, un libro massiccio da cui ti aspetti grandi cose, un racconto epico ed appassionante che non tarda ad arrivare.

Quel giorno erano solo tre: Ester, Leonardo e Domitilla. Se avessi conosciuto subito anche Giovanni, con i suoi capelli striati di azzurro e i modi teatrali probabilmente avrei pensato ad un altro libro con la copertina meno sobria.

Vennero i primi giorni del dicembre 2017, quando iniziavano a spuntare le prime decorazioni natalizie, e stavo arrivando in treno a Bologna con i pochi amici che mi ero fatto in università: i tre che avevo conosciuto quel giorno in mensa e Giovanni. Loro erano tutti scienziati, parlavano il linguaggio segreto della chimica. Il professor Galli (demenza senile avanzata, sarebbe morto pochi anni dopo dentro al suo ufficio, tra un esame e l'altro) lo paragonavano all'uranio e al suo inevitabile decadimento radioattivo. Era poesia anche quella, scritta dagli elementi della natura a caratteri a me incomprensibili. I miei compagni erano Giovanni (lettore di Vogue e Cosmopolitan) Leonardo (sempre elegantissimo nelle sue giacche inglesi) Ester (laureanda magistrale in chimica organica, il suo laboratorio di tesi era spesso il nostro ritrovo) e Domitilla (genitori ricchi, vestiti di seconda mano presi in qualche negozio vintage vicino alla metro Cavour). Loro vivevano di chimica ed era per questo che mi affascinavano tanto, vedevo in loro lo stesso amore per la conoscenza che io provavo leggendo Omero e Plotino. Quando eravamo a studiare tutti insieme nel laboratorio di Ester, si mischiavano molecole e topos, legami sigma ed enjambement, cose che non capivo e cose che avrei imparato.

Eravamo a Bologna per la festa di laurea di un'amica di Ester e avevamo deciso di approfittarne per un weekend senza pensieri in preparazione della sessione invernale. Ho una fotografia mentale di quel giorno: i miei compagni che escono dalla stazione circondati dalle luminarie spente, la sciarpa di Leonardo che gli scoda dietro (sciarpa di Woolcott che costa quando il mio cellulare) e il tempo cupo, con nuvoloni bassi e grigi. Arrivammo all'hotel con due taxi anche se avevo insistito per prendere il bus, ma mi sentii sollevato quando pensò Giovanni ad allungare al conducente una banconota da venti (può tenere il resto, buona serata). L'hotel era il motivo principale per cui non riuscii a godermi davvero quella gita a Bologna. Durante gli anni dell'università vivevo solo della mia borsa di studio e dei pochi risparmi che mi passavano i genitori. Ogni spesa pesava e quella camera doppia condivisa con Giovanni aveva assorbito buona parte del budget quindi passai il viaggio a preoccuparmi ogni volta che c'erano da spendere soldi. Non so quanto i miei compagni percepivano effettivamente questo tormento, per loro il conto in banca pieno era una cosa scontata come l'aria, e soprattutto per Leonardo.

Consegnato il tir a Bologna, decido di fare quattro passi per il centro. Mi sento fuori luogo, questa è una città per chi ancora è allegro e ha voglia di divertirsi. Universitari che hanno voglia di buttarsi sotti i portici, bevitori e poeti della strada. Io sono qui solo per seguire il fantasma di Domitilla che va con il vento tra le arcate. Quella sera aveva davvero vagato come un fantasma, fatta e ubriaca, sbandando da un lato all'altro. E pur con i sensi sbiaditi era quella la cui risata arrivava più forte. Ma era una risata forzata, con gli occhi sgranati.

Non volevo finire lì, ma mi ritrovo ugualmente a passare davanti all'hotel in cui eravamo stati. Ora mostra due stelle in meno e un'anonima scritta in plastica e neon. Sbircio attraverso la porta a vetri, verso un corridoio in cui forse dovrei ambientare una parte della storia. Sarebbe tipo un flashback, un ritorno al momento in cui siamo entrati e stiamo facendo il check-in. Firmai per la stanza (su una scrivania rigorosamente del 1800, con rifiniture in ottone) e salii con l'ascensore al terzo piano. In fondo al corridoio, come una scena di Kubrick, c'era Domitilla. Aveva il suo zaino Fjallraven Kanken su una spalla e con l'altra mano teneva il telefono. Scomparve subito nella sua camera, dopo avermi lanciato uno sguardo enigmatico. Con la curiosità voyeuristica che ci spinge ad entrare non visti nell'intimità degli altri rallentai davanti alla sua porta per origliare la conversazione, forse perché una delle prime parole che sentii fu proprio il mio nome.

-Mamma, Giorgio è uno a posto. Non importa cosa pensi- sentii dire da Domitilla, con la voce ovattata attraverso la porta che variava d'intensità man mano che lei si spostava nella stanza -Tanto c'è Leonardo con me… Diamine mà, ci sono altre cose nella vita, non sono tutti come te per fortuna- qui potevo solo immaginare le risposte dell'interlocutore -Non abbiamo dovuto offrirgli nulla. E se anche fosse? Questo lo renderebbe una brutta persona?- suoni indistinti, rumore di passi -Cristo santo, cosa dovrei risponderti? Ok boomer? Sono stanca di discutere anche quando sono in viaggio, ok?- il tono si era alzato, adesso distinguevo perfettamente le parole cariche di rancore di Domitilla -Passami papà e basta. Ciao pà. Siamo in hotel, tutto ok. Si, i portici sono ovunque. No, ci andremo domani- pausa più lunga -No, non li ho portati- cosa c'era nella sua voce, senso di colpa? -la sessione deve ancora iniziare, non sarà questo a distrarmi. No. Stai tranquillo. Va bene. Ciao.- la sua voce si era spenta come una candelina su cui soffiano troppo forte, che si lascia dietro solo un filo di fumo.

Mi stavo già avviando verso la mia camera quando dalla sua porta chiusa arrivò un urlo di rabbia e il suono di qualcosa che urtava il muro con forza. Immaginavo Domitilla con i pugni stretti e le vene che si ingrossavano sui suoi polsi come facevano sempre quando si arrabbiava davvero. Un istante prima di entrare nella mia stanza, notai Leonardo in fondo al corridoio che mi lanciava uno sguardo strano.

Passammo la serata saltando da un bar all'altro, uno shot alla volta. Al Cucchiaio d'Oro venimmo cacciati perché Ester lanciò la sua carta di credito alla barista come fosse uno shuriken.

Essendo tornati in hotel solo quando già cominciava ad albeggiare, dormimmo tutto il giorno seguente svegliandoci solo per spostarci dalle camere al treno saltando la visita prenotata alla Torre degli Asinelli (soldi buttati, quei cinque euro valevano due pasti in mensa). Arrivati a Roma Tiburtina, successe un fatto a cui lì per lì non diedi peso ma mi tornò in mente molto tempo dopo quando potei scartare l'ipotesi della stanchezza accumulata (tenevamo tutti gli occhiali da sole per nascondere le palle degli occhi arrossate). Il treno era fermo in stazione e uno per volta andavamo verso l'uscita. Nella calca, mi voltai verso i nostri posti per controllare che non fosse rimasto nulla (ormai un'abitudine da quando dimenticai una bellissima copia di Codici e Segreti sulla linea Roma-Ancona) e notai la preziosa sciarpa di Leonardo rimasta sul sedile. Gli altri passeggeri mi spingevano avanti ma provai ugualmente ad avvertirlo. Sono abbastanza sicuro che mi abbia sentito e credo che abbia anche lanciato un'occhiata indietro alla sciarpa, ma non rispose al mio avvertimento né fece nulla per andare a riprenderla. Eppure era un nuovo acquisto, l'aveva da non più di un paio di settimane (l'aveva indossata per la prima volta il giorno del loro secondo esonero in Analisi Matematica I). Da come diventava taciturno, chiudendosi nei propri pensieri ogni volta che la scorreva tra le dita, ero convinto che ci fosse affezionato.

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